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Da Nietzsche in poi tutto cambia. L'idea di una società fondata sulla bellezza e sulla ragione crolla e con essa crollano tutti i valori. Muore anche Dio, garante di ogni sapere e verità. L'Aldilà diventa un "celeste nulla" e l'uomo si scopre solo nella sua finitezza. Comincia a guardarsi dentro in cerca di una risposta. Capisce di avere delle parti oscure, delle ferite. Nasce la psicoanalisi e Freud scopre un uomo diviso, oscillante tra le pulsioni dell'inconscio e le inibizioni della coscienza e della cultura, in bilico tra desideri inconfessabili e censure, tra vita e morte, eros e thanatos.
Le scoperte della scienza mettono in crisi la razionalità cartesiana e lo spazio prospettico rinascimentale. L'uomo, che non è più "misura di tutte le cose", si guarda dentro, ma guarda anche il mondo, va alla ricerca di un senso.
La fenomenologia indaga il rapporto dell'uomo coi suoi simili e con le cose. Scopre che non esiste nulla di certo, nulla di uguale. Ogni soggetto incontra il mondo da una prospettiva diversa secondo la sua sensibilità e la sua esperienza, secondo ciò che è l'altro (persona o cosa), secondo la situazione dell'incontro.
La coscienza non è più pura e assoluta, ma sociale e incarnata, definita dal suo rapporto con gli altri e col mondo. Assume importanza la percezione, che permette di superare il dualismo platonico e cartesiano, la scissione tra corpo e anima, tra apparenza e realtà.
Se il mondo è esattamente ciò che appare e l'esistenza umana non si fonda su nulla, non esistono più vincoli, limitazioni. L'uomo è libero di scegliere il suo futuro, di decidere della propria vita. Una condizione tutt'altro che semplice, che impone scelte morali, difficili senza punti di riferimento. La guerra, la distruzione, sono lì a dimostrarlo. La libertà diventa fonte di angoscia. Dramma esistenziale.
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Di fronte al frantumarsi della realtà e alla perdita di ogni certezza, l'artista, come il filosofo, cerca di trovare un senso, di recuperare l'originario rapporto con le cose.
Lo spazio prospettico è il primo a cadere perché è diverso da quello vissuto, da quello emozionale. Poi si passa alla forma, al colore, alla tecnica.
Gli artisti si ribellano ai canoni e ai modelli rappresentativi precedenti che non reputano in grado di dare voce e forma alla propria ansia, alla propria angoscia, che è qualcosa di diverso dalla paura. È timore di qualcosa di indefinito e indefinibile, da cui non si può fuggire perché fa parte ormai della vita. È il risultato della mancanza di stabili punti di riferimento, di vere e proprie certezze. È il segno dell'uomo nuovo, che non crede più in Dio, ma non ha ancora acquisito consapevolezza della propria identità. Per questo è scisso, frantumato, insicuro, in balia delle proprie paure.
I protagonisti di questa mostra vivono questo clima di spaesamento e grande instabilità, lo stesso che stiamo sperimentando anche noi. Alcuni ne restano avvinti, si rinchiudono in un mondo di solitudine e incomunicabilità (Munch, Strindberg), altri cercano un rifugio nei miti dell'antichità (Böcklin), o in mondi misteriosi (de Chirico), altri si bloccano in un sinistro e gelido silenzio oppure gridano a gran voce il loro tormento e la loro denuncia. Il linguaggio non conta, conta ciò che preme dentro.
Il pittore si dà col suo corpo, dice Valery. È prestando il suo corpo al mondo che trasforma il mondo in pittura, aggiunge Merleau-Ponty. La visione si fa in mezzo alle cose perché le cose e il corpo sono della medesima stoffa. L'arte non è costruzione e artificio e neppure rappresentazione. Ciò che importa è che faccia scoprire un poco il mondo esterno, che risvegli nella visione potenzialità dormienti. Per questo, non ha senso distinguere tra forma e colore, figurazione e astrazione. Ogni entità visiva allude sempre a un'assenza, a qualcosa di non detto e indicibile. Che si può soltanto intuire.
Il dolore, l'agitazione interiore possono essere affidati all'irruenza del gesto (Rainer, Nitsch, Brus, Schwarzkogler) o della materia (Fautrier, Dubuffet, Jorn, Tápies, Burri, Leoncillo, Giacometti, Marini), alla graffiante ironia del segno (Ensor, Kokoschka, Schiele, Toulouse-Lautrec), oppure affiorare dall'assenza del tempo (Casorati, Cagnaccio di San Pietro) e dalla crudeltà degli sguardi (Dix, Grosz), dalla freddezza dei colori e delle immagini (Schad, Beecroft, Manzelli), dalla visionarietà delle figure (Picasso, Bacon, Ousler, Orlan). L'angoscia non ha volto, né corpo. "Non è né qui, né là... È niente... Ma quel niente pesa come un macigno... Ci possiede". Come dice Heidegger: "Ci opprime e ci mozza il fiato".
La mostra, che mette a confronto 90 protagonisti dell'arte del XX secolo e 200 opere di forte impatto emozionale, è curata da Giorgio Cortenova, direttore di Palazzo Forti, che ha fatto una scelta coraggiosa, fuori dalla logica dei grandi numeri. Capace di affascinare e coinvolgere, ma anche ferire o disturbare.
Forse avrebbe potuto fare di più e non giocare sull'attrazione di nomi come Picasso e Bacon, che compaiono nel sottotitolo e sembrano fissare ingiustificatamente i limiti di un'esposizione che va ben oltre e arriva ai giorni nostri.
Il percorso non segue un andamento cronologico, ma si sviluppa attorno a 7 tematiche particolari, che il visitatore può percorrere seguendo le sue inclinazioni: L'emergenza della psiche; La narrazione impossibile; La ferita della materia; L'identità frantumata; La rappresentazione improbabile; Il brivido della visione; La crisi del soggetto.
Quando si parla di angoscia, di creazione, quelle che contano non sono le date, ma le assonanze esistenziali, le vertigini dell'anima.
Data la portata dell'evento, per evitare l'attesa e prenotare i biglietti si può:
- contattare il numero: 199199100 (lun-ven 9-18, sab 9-14)
- seguire le indicazioni presenti on line. |